1946 il voto delle donne

20 1946: il voto delle donne donne dalla possibilità di essere testimoni negli atti civili e a collocarle in condizione di netta disuguaglianza per l’ottenimento del divorzio, con l’istituto dell’«autorizzazione maritale» affidava al marito l’intera gestione dei beni di famiglia. L’esclusione dalla gestione dei beni familiari fa sì che, nei sistemi censitari, le donne coniugate non potranno veder riconosciuto il diritto di voto. La collocazione delle donne dinanzi al diritto di proprietà è una questione cruciale, ovviamente, nei contesti in cui si votava in base al censo. A differenza degli uomini, quindi, la proprietà non consente alle donne di accedere alla cittadinanza. Ma, si dirà, le nubili? E le vedove? Loro sì che godevano pienamente del diritto di proprietà e dunque perché era loro egualmente precluso il diritto di voto? Per votare, come l’introduzione dei sistemi a suffragio universale maschile chiarirà ancora più esplicitamente, bisognava essere maschi: le principali culture politiche, quelle legate alla tradizione cattolica, così come quelle dell’ampia famiglia socialista ed ancora quelle di stampo più individualistico propria del radicalismo, con motivazioni diverse e di diversa intensità, a lungo restarono infatti ostili al riconoscimento del diritto di voto alle donne. La Rivoluzione francese portò un altro importantissimo cambiamento: con l’introduzione del servizio di leva obbligatorio, tutti i nuovi cittadini – la «nazione in armi» – acquisirono il compito di difendere la patria e i suoi confini. Servizio di leva, partecipazione alla guerra e a campagne militari erano funzioni assegnate solo agli uomini, ma anche questi costituirono delle importanti vie d’accesso al diritto di voto. Ancora una volta, quindi, la declinazione solo maschile della cittadinanza emerge in tutta la sua evidenza. Con tempi e modalità differenti gli istituti che così fortemente avevano caratterizzato il codice civile napoleonico vennero meno in rapporto a delle lotte molto serrate condotte dai diversi movimenti emancipazionisti e in nome di una modernizzazione che non stentò ad affacciarsi sul finire dell’800; l’autorizzazione maritale sarà, però, cancellata dal codice civile italiano nel 1919 e in quello francese solo nel 1938. Il pieno godimento del diritto di proprietà sembrava preludere al riconoscimento del diritto di voto, ma il fascismo in Italia e i governi che si succedettero dopo il Fronte popolare in Francia non lo contemplarono tra i propri obiettivi. Per le suffragiste francesi, la battaglia più difficile sarà confrontarsi con le profonde e radicate ostilità che scienziati, autorità ecclesiastiche e politici espressero contro il diritto di voto alle donne. Molte esponenti del movimento instaurarono nel tempo un rapporto diretto con singoli deputati che avevano mostrato qualche apertura verso l’uguaglianza formale tra i sessi. Nel complesso, però, così come accadrà in Italia, saranno le rivendicazioni in favore dei diritti civili quelle maggiormente sentite e su cui si impegneranno con particolare dedizione; la possibilità di godere del proprio salario senza autorizzazione del marito, il diritto di testimoniare o di accedere alle professioni erano istanze più sentite rispetto a quella che sembrava una autentica chimera: avere tra le mani la scheda elettorale. A ribaltare il ragionamento, in Francia, fu principalmente una militante: Hubertine Auclert, la suffragista francese più rappresentativa dell’intero movimento. Scelse di assegnare la priorità al diritto di voto perché voleva che le donne decidessero e legiferassero; solo così avrebbero cancellato gli articoli più umilianti del Codice Napoleonico. Candidature simboliche, iscrizioni alle liste elettorali, petizioni, banchetti politici, irruzioni nelle sedi politiche ufficiali furono i mezzi di lotta più frequentemente adottati. Il paese della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, del suffragio universale maschile introdotto nel 1848, della Repubblica laica, fece attendere alle Francesi la fine del secondo conflitto mondiale per riconoscere loro il diritto alla scheda elettorale: il voto alle donne non rientrò nemmeno nel programma del Fronte Popolare che portò al potere il socialista Léon Blum nel 1936. La Spagna, invece, pur condividendo con Francia e Italia aspetti rilevanti quali il codice civile di impronta napoleonica e la radicatissima tradizione cattolica, giunse relativamente presto al vero suffragio universale. Come Mussolini, il dittatore Primo de Rivera nel 1924 aveva riconosciuto soltanto alle donne capofamiglia una sorta di voto amministrativo, ma sarà la Seconda Repubblica e la nuova Costituzione, molto avanzata sul piano dei diritti, a riconoscere ai cittadini «dell’uno e dell’altro sesso» la piena parità. È in parte nota la contrapposizione tra la vera protagonista della dura battaglia per il voto alle donne, Clara Campoamor, e un’altra deputata, Victoria Kent, che esprimeva i timori legati al capillare controllo che, la Chiesa e una certa cultura tradizionalista, avrebbero ancora esercitato sulle donne indotte quindi a sostenere le forze politiche conservatrici. La seconda Repubblica spagnola introdusse, oltre al diritto di voto, importanti misure in tema di tutela della maternità, ambito caro ai socialisti, nonché l’istituzione del matrimonio civile e del divorzio, la fine del reato di adulterio

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