1946 il voto delle donne

26 1946: il voto delle donne contemporaneamente l’enfasi della maternità repubblicana, già osteggiata da Catharine Beecher (Treatise on Domestic Economy). Anche l’affermato movimento revivalista sosteneva il ruolo domestico delle donne non derivandolo però dalla volontà divina ma dal patto tra i sessi e privilegiando l’identità di genere ritenuta superiore a ogni altra, anche alla “razza”. Si era alla vigilia della Guerra Civile (1850). L’abrogazione della schiavitù nell’Unione (1808) aveva arroventato i già difficili rapporti tra il Nord industrializzato e il Sud agricolo e nel clima rovente del 1848 era esplosa anche la Gold rush, la Corsa all’oro verso la California. Il 24 gennaio di quell’anno, il carpentiere James Marshall aveva raccolto sulle rive dell’American River un grumo luccicante, lasciandolo da parte. Nel diario del mormone H.W. Bigler, operaio nella stessa segheria, si legge che la cuoca e lavandaia Jennie (Elizabeth Bays Wimmer), prese il grumo, lo lasciò a mollo nella lisciva per tutta la notte e la mattina ne trasse una splendida pepita d’oro. La vera Corsa cominciò però a dicembre quando un cercatore d’oro con una scatoletta da tè zeppa di pepite giunse a Washington. Le donne parteciparono numerose, con le famiglie e da sole, alla Corsa verso il West, attraverso i deserti o seguendo il Canale di Panama (non terminato) o circumnavigando l’America del Sud. La loro generazione (Forty-niners), cambiò il volto al paese e ai due modelli pionieristici della moglie dell’ufficiale di frontiera e della colona che guida il carro, cappello di paglia e fucile per difendere la famiglia dagli ‘Indiani cattivi’, aggiunse quello della cercatrice d’oro che vive e muore sola e povera. Nel 1848, i movimenti abolizionisti, tranne eccezioni, avevano già perso l’incontro con il mondo indigeno, in rapida e violenta scomparsa, chiuso nelle riserve e per il quale non valse il XIV emendamento. Avevano perso l’occasione di difendere le Native, offensivamente chiamate squaw, disprezzate più delle schiave afro-americane utilizzate da forza lavoro e da moltiplicatrici della stessa. Annalucia Accardo (The Personal Narratives Group) in Interpreting Women’s Lives (Indiana Uni. Press, 1989), parla di «resistenza, autorità e autorappresentazione» nelle autobiografie delle afro-americane (libere), prima della Guerra Civile: «Le storie di vita delle donne, qualsiasi forma prendano, devono essere pensate come parte di un dialogo con il dominio Le vite delle donne sono vissute o all’interno o in tensione con i sistemi di dominio Sia le storie di accettazione, sia le storie di ribellione sono risposte al sistema in cui si originano e perciò ne rivelano le dinamiche » L’intera letteratura delle Forty-niners e delle Slave narrative (le bianche prigioniere dei Nativi), è andata persa e con essa pezzi importanti della storia dello Stato e della Corsa, ma nel 1848, i movimenti abolizionisti e rivendicazionisti la conoscevano e colsero il parallelismo tra schiavitù e situazione delle donne (escluse le Native). Il mondo plurietnico e plurireligioso cui appartenevano le cinque amiche, a casa Hunt, si riflesse nel documento steso quella sera stessa da Elizabeth C. Stanton e Lucretia Mott: la Dichiarazione dei diritti e dei Sentimenti, piattaforma del congresso, convocato di lì a tre giorni, finalizzato a un nuovo movimento per i diritti civili e politici e per il suffragio Colte quanto generose, Stanton e Mott conoscevano la letteratura rivendicazionista e abolizionista inglese, dalla seicentesca Mary Astell a Mary Wollstonecraft il cui Vindication of the Rights of Women (1792), rimase per tutto l’Ottocento un manifesto cardine del femminismo insieme al Von der bürgerlichen Verbesserung von Weiberdi della berlinese Teodora Gottlieb von Hippel in cui alla rivendicazione dei diritti e suffragista si unì quella alla felicità Conoscevano la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791), che era costata a Olympe de Gouges la ghigliottina e s’ispirarono anche loro a un documento ufficiale: la Dichiarazione dell’Indipendenza americana indirizzata dalle Colonie americane a re Giorgio V. La Dichiarazione dei diritti e dei Sentimenti s’indirizzò invece a tutti gli uomini affermando l’uguaglianza «essendo uomini e donne dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili» quali «la vita, la libertà, il perseguimento della felicità » Vi aggiunsero «la leicità di disobbedire a un Governo che si dicesse ‘democratico’ ma che non garantisse i diritti e non li estendesse alle donne.» Si legge: «La storia dell’umanità è una storia di ripetute offese e usurpazioni degli uomini nei confronti delle donne, allo scopo di istituire su di esse una tirannia assoluta», occorreva «disobbedire al dispotismo maschile e rovesciarlo per liberare un sesso femminile che aveva esaurito la pazienza.» Era giunto il momento non solo di esigere ma di ottenere! Inserite in una forte rete relazionale e associativa, Elizabeth Stanton e Lucretia Mott riuscirono nell’incredibile impresa di terminare il documento politico la mattina dopo, a casa di Mary McClintock (16 luglio 1848), di far circolare

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