1946 il voto delle donne

45 po prima e forse aveva rovinati i polmoni. S’ammalò dopo la notte trascorsa a spegnere l’incendio del nostro appartamento causato dagli spezzoni caduti nel massiccio attacco dell’aviazione inglese al centro di Torino. Serviva la penicillina, gli Alleati l’avevano, ma erano ancora lontani, ad Alessandria. Mio fratello risalì la penisola al seguito degli Alleati ma non rivide più nostro padre. Tutta la famiglia sosteneva le iniziative di Anna Rosa che organizzò i gdd (Gruppi di difesa della donna), a Torino, presente alle riunioni preparatorie, a Milano e a Genova. I GDD allargarono velocemente la rete, trasversale, che si appoggiava anche alle parrocchie. La Resistenza era un valore molto forte per il mondo democratico cattolico. “Scuole di libertà”, scrisse Anna Rosa delle parrocchie. Nei sotterranei di una centrale, in Via Pietro Micca, aprì un punto di soccorso clandestino per la gente e per i partigiani e organizzò un corso di Infermieristica che fungeva da collegamento fra i GDD e le partigiane fuori città. Una di loro morì nel mitragliamento di un treno mentre veniva ad una riunione. Nel Comitato di assistenza femminile c’era Ada [ndr. Prospero Marchesini Gobetti], grande amica di mia sorella che la ricordò in La semplicità di Ada Anna Rosa non volle andare in Parlamento, preferì rimanere a Torino, sposarsi con Enrico Girola, mettere al mondo quattro figli (maschi), e proseguire il suo impegno verso il paese e la città come giornalista (n. 2 dell’odg, entrata al “Popolo Nuovo”, poi alla “Gazzetta del Popolo”, a “La Stampa” e all’“Informativo Fiat”) e Assessora più volte rieletta alla Provincia, per la DC che già aveva rappresentato nei GDD e nel CLN regionale piemontese. Diventò anche la presidente onoraria dell’Associazione dei partigiani cristiani Giorgio Catti. Oltre all’assistenza e alla stampa, Anna Rosa curava i rifornimenti ai partigiani del Piemonte e della Lombardia. Io le facevo un po’ da Segretaria e tenevo i collegamenti con le fabbriche, per gli scioperi. Noi partigiane di città e staffette, ci riunivamo sempre in poche. Usavamo nomi fittizi. Una volta mi presentai come ‘Adelaide Cavalleri’ e la Partigiana Socialista mi rispose, sorridendo: «...come sta tua sorella Anna Rosa?» Tra le cose che facevamo a casa, con nonna e mamma, c’era quella di preparare pacchi-dono per i prigionieri e condannati a morte, e trovare le giovani donne che si fingessero sorelle o fidanzate per portarglieli. Una sera preparammo in fretta un pacco per un certo Dario Fiorensoli, noto esponente della Resistenza torinese, membro del CNR per la Regione Piemonte, che dopo una lunga prigionia stava per essere fucilato. Glielo portai io. Per liberarlo, i Partigiani catturarono cinque soldati tedeschi e fecero uno scambio. Si salvò! Ci sposammo subito dopo la guerra. Lui entrò in Rai dove proseguì l’impegno nel Sindacato Cattolico, di cui fu uno degli organizzatori, direttore della Eri e del personale Rai, Capo sede a Trieste. Dei nostri sei figli, tre maschi e tre femmine, una, Enrica, è morta piccola. Il Piemonte versò moltissimo sangue nell’antifascismo e nella Resistenza. Molte donne morirono in montagna e in città, nelle carceri e nella deportazione o per rappresaglia. Il Martinetto era un luogo di fucilazione e mio cognato, Franco Fiorensoli, nome di battaglia ‘Federico’ (1ma div. Langhe, 2da div. Sap, div. Torino), scrisse in Fiori rossi al Martinetto, del famoso processo del 1944 ai sei membri del Comitato del Cl.n. piemontese fucilati per aver “attentato all’integrità, all’indipendenza e all’unità della Repubblica Sociale Italiana.” Morirono gridando “Viva l’Italia libera”. “Viva L’Italia” gridò anche la maestra e partigiana Cleonice Tomassetti che, dopo aver attraversato la valle, sotto la minaccia dei mitra delle SS, dietro il cartello “Sono questi i liberatori d’Italia oppure sono banditi?” fu fucilata con 43 partigiani, a Fondotoce (Verbania), il 20 giugno1944. Sovente le famiglie, le coppie, padri, madri e figli si dividevano sull’antifascismo e sul severo giudizio dato al re. Ci fu quasi una guerra civile da noi, nel triangolo industriale Milano, Genova, Torino; le ultime due città si sono liberate da sole, ma non si contarono le stragi e le atrocità dell’esercito tedesco in ritirata, sempre fiancheggiato dai Repubblichini. Sul finire della guerra, ero la Segretaria di un noto avvocato penalista, De Marchi, che condivideva lo Studio con un avvocato civilista, fascista, di cui non mi occupavo. Un giorno, tre Repubblichini armati entrarono a forza per prelevarlo, dicendomi di volerlo “accompagnare alla Sede del Partito per il rinnovo della tessera”. Lui non c’era. Lo aspettarono. Telefonai alla famiglia e dissi al portiere di fermarlo ma quando lo vidi sulla porta, non sapendo che fare, gliela sbattei in faccia. Capì, ci furono telefonate, i tre se ne andarono. Solo molto tempo dopo ho capito perché il portiere non l’aveva fermato. Vicino all’ingresso c’era un vecchio cartello: “Sede sezionale del Partito Comunista”! Quando fummo certe che la fine dell’occupazione dei Tedeschi e dei loro complici Repubblichini fosse vicina, mamma e nonna cucirono fasce tricolori da mettere al braccio dei Partigiani. Abitavamo vicino al castelletto di Pietro Micca e L’antifascismo nel Ventennio, la guerra, la Resistenza

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